Figli, coniugi, genitori che assistono un familiare con disabilità grave o gravissima, o un anziano malato. A volte sono costretti a licenziarsi per dedicarsi ai loro cari, giorno e notte, in assenza di servizi adeguati sul territorio. Sono icaregivers di famiglia che svolgono gratuitamente un lavoro di «cura invisibile», quasi sempre ignorato nel nostro Paese. Nei principali Stati dell’Unione Europea, invece, possono contare su strumenti di tutela che riconoscono a livello giuridico il valore di questo impegno, anche per la collettività.

Per sollecitare il riconoscimento del caregiver di famiglia anche in Italia, il «Coordinamento nazionale famiglie disabili gravi e gravissimi» ha deciso di intraprendere un’azione legale collettiva nei confronti dello Stato, col supporto di un team di giuristi e avvocati. «Stiamo studiando varie ipotesi per ottenere il riconoscimento giuridico del caregiver, — spiega l’avvocato Marco Vorano — quasi certamente avvieremo una “causa pilota” con centinaia di testimonianze di chi, per esempio, ha dovuto rinunciare al lavoro o è stato costretto a chiedere il part-time. In alcuni Stati europei, un lavoratore che si licenzia per assistere una persona cara ha una corsia preferenziale per un’eventuale futura riassunzione». «In tema di lavoro — ricorda l’avvocato Angelo Marra, esperto di disability studies — la Corte di Giustizia europea con la “sentenza Coleman” ha stabilito che il divieto di discriminazione per ragioni di disabilità si applica non solo alla persona interessata ma anche a chi l’assiste. E la Direttiva comunitaria 78 del 2000, che afferma questo principio, è stata recepita nel 2003 anche nel nostro Paese. Ma da noi a volte per far valere i diritti bisogna ricorrere all’interpretazione giurisprudenziale».

«Occorrerebbe arrivare a una sorta di Testo unico che razionalizzi anche norme già esistenti, come per esempio quelle su permessi e congedi straordinari che consentono di mantenere la retribuzione» ragiona Paolo Cendon, ordinario di diritto privato all’Università di Trieste, inventore dell’istituto giuridico dell’Amministratore di sostegno, strumento per tutelare le persone più fragili evitando loro l’interdizione. Intanto, in poche settimane sono state raccolte circa 900 adesioni all’azione legale collettiva promossa dal Coordinamento, grazie a un tam tam attraverso i social network. «Sono familiari logorati da un carico assistenziale senza pari — dice la presidente del Coordinamento, Maria Simona Bellini, mamma di una ragazza cerebrolesa di 24 anni— . Non che ci pesi, lo facciamo con amore e dedizione, ma anche noi abbiamo diritto a qualche forma di tutela. Da 18 anni chiediamo il prepensionamento per coloro che lavorano e assistono persone con disabilità gravi o gravissime, ma la proposta di legge giace da due anni in Senato».

«Dopo che assisti una persona cara per 20-30 anni —aggiunge Bellini — come puoi pensare di continuare a lavorare fino a 67 anni?». Il Coordinamento sta raccogliendo nel blog “La cura invisibile” le esperienze di altri Paesi europei che prevedono il riconoscimento giuridico del caregiver. «In Spagna, Paese più vicino a noi dal punto di vista economico, il family caregiver riceve una retribuzione — riferisce Bellini — . Anche in Germania sono previsti benefit economici in base al reddito». Qui, poi, se i caregivers forniscono assistenza per più di 14 ore a settimana hanno diritto a contributi previdenziali. Inoltre, sono possibili accordi personalizzati col datore di lavoro, favoriti dal governo, per organizzare al meglio l’assistenza al familiare e non perdere l’occupazione. «All’estero c’è una maggiore attenzione degli ordinamenti giuridici sul “prendersi cura dell’altro”, riconosciuto come un valore non solo morale ma anche economico e sociale —aggiunge l’avvocato Marra — . Nel Regno Unito, per esempio, viene remunerato il lavoro del caregiver, che può anche non essere un familiare: si tutela così la scelta della persona con disabilità e l’assistenza funzionale alla sua vita indipendente».

Maria Giovanna Faiella – Il Corriere della Sera